Presidente quale è stato il percorso che l’ha portata alla “scoperta” dell’omeopatia?

Come spesso accade nella vita, si è trattato di un mix di casualità e curiosità, ai quali va aggiunto un pizzico di metodo scientifico. Partirò proprio da quest’ultimo. Durante gli anni dell’università mi insegnavano che alla base del metodo scientifico c’è la sperimentazione e l’osservazione e, avendo sentito parlare di farmaci omeopatici e nutrendo forti dubbi sulla loro efficacia, decisi che era opportuno sperimentarli su me stesso. Così ne comprai uno a caso in farmacia, ne presi qualche granulo e andai a lezione. L’effetto fu uno strano e incomprensibile stato di agitazione ed eccitazione, che mi indusse a due considerazioni: la prima fu che qualche cosa quei granuli contenevano e non erano certo “acqua fresca”; la seconda che non avrei più ingerito nulla di quel genere, non avendo compreso la reazione inattesa. Su quest’ultimo punto fu poi di nuovo l’esperienza a farmi ricredere in modo definitivo: una notte, afflitto da un mal di denti importante, decisi di provare – come ultima spiaggia – un farmaco omeopatico che un informatore mi aveva lasciato in omaggio, affermando la sua utilità proprio in caso di mal di denti. L’effetto fu che nel giro di dieci minuti il dolore si era affievolito e mi addormentai; il giorno successivo, proseguendo la cura, anche l’infezione si ridusse e nel giro di poco guarii del tutto.

Da quel momento, dalla curiosità passai allo studio sistematico. Iniziai a utilizzare l’omeopatia, come spesso accade, prima con i familiari e i conoscenti. Studiai approfonditamente gli effetti terapeutici, prima di decidere che i miglioramenti osservati non fossero il risultato di un effetto placebo. Una volta certo di questo, capii anche che per rendere stabili i miglioramenti dovevo approfondire lo studio della materia. Venuto a conoscenza dell’esistenza della Facoltà di Omeopatia di Londra, mi presi un anno sabbatico e andai a studiare al Royal London Homeopathic Hospital. Al ritorno in Italia, proseguii l’attività di medico internista ospedaliero e iniziai anche le visite private ai pazienti omeopatici sinché, dopo due anni, corroborato dall’osservazione dei buoni risultati terapeutici anche in pazienti con patologia cronica, decisi di lasciare l’ospedale e focalizzarmi sull’omeopatia come principale ambito di lavoro.

Lei ha detto di aver fatto suo il metodo scientifico. A questo proposito qual è il punto di incontro scientifico tra medicina tradizionale e omeopatia, dal momento che molti definiscono quest’ultima priva di basi scientifiche?

Prima di tutto scindiamo i piani: il piano della pratica clinica e il piano del meccanismo di funzionamento.

Per quanto attiene al primo, la risposta è semplice: molti studi e diverse meta-analisi cliniche hanno mostrato l’efficacia clinica dell’omeopatia oltre l’effetto placebo. A questo proposito ricordo, tra le altre, la meta-analisi di Klaus Linde, pubblicata su Lancet, che già nel 1997 mostrava il rapporto di probabilità complessivo (odd ratio) di 2,45 in favore dell’omeopatia rispetto al placebo. La metanalisi di Shang, nel 2005, che contestava quel risultato, è stata ampiamente confutata per la debolezza della metodologia con cui era stato eseguito lo studio.

Venendo al secondo piano, occorre anche in questo caso distinguere due aspetti: le basse e le alte diluizioni. (Il termine diluizione lo utilizziamo in modo impreciso, sarebbe più corretto parlare di potenze omeopatiche, che include il concetto di diluizione e dinamizzazione). Per quanto riguarda le basse diluizioni/potenze, la medicina accademica è consapevole che le micro-dosi sono una frontiera decisamente interessante: infatti i recettori nel nostro organismo possono essere stimolati o inibiti dalle micro-dosi, secondo la peculiarità d’azione del medicinale omeopatico utilizzato. Certamente c’è ancora molto da studiare e approfondire, ma la strada è aperta e l’incontro tra medicina accademica e omeopatia trova qui uno dei suoi punti maggiori di contatto.

Bene, ma quando si parla di superare il numero di Avogadro con le alte o altissime diluizioni come la mettiamo?

È necessario muoverci in un ambito di ricerca più ampio.  Se con le basse diluizioni possiamo operare nel campo della biochimica – consueto per la ricerca medica – palando invece di alte diluizioni, si apre uno scenario che cerca di includere le più recenti acquisizioni e che si apre alla biofisica e biologia quantistica. In questo territorio di confine troviamo gli studi di fisici teorici quali Preparata e Del Giudice; ambito decisamente più ostico e meno frequentato dalla ricerca medica convenzionale. Semplificando enormemente possiamo dire che, grazie alle ipotesi teoriche della fisica quantistica e a diverse evidenze sperimentali, possiamo descrivere gli organismi viventi come sistemi che funzionano sia sul piano biochimico sia su quello biofisico; possiamo immaginare un organismo vivente in tutti i suoi livelli – organelli, cellule, tessuti, organi, sistemi di organi, l’intero organismo – caratterizzato da proprie specifiche funzioni d’onda, le cui fasi sono perfettamente orchestrate in un’unità di coerenza multi-livello. Quando questa coerenza multi-livello viene disturbata, emerge la malattia. Le ricerche sulle caratteristiche fisiche dei medicinali omeopatici mostrano che queste preparazioni hanno comportamenti diversi rispetto all’acqua inerte. È stato dimostrato che nelle preparazioni ultramolecolari (alte potenze omeopatiche) non rimane semplice “acqua fresca”, ma un insieme composito di nanoparticelle. Con opportuni strumenti, che esaminano le caratteristiche fisiche, si è osserva che i preparati omeopatici hanno un comportamento più ordinato e coerente rispetto alla semplice acqua. Considerando le diverse osservazioni sperimentali, l’ipotesi sul meccanismo d’azione – che mi sento di sostenere come più plausibile – considera la presenza di modi vibrazionali coerenti, portatori di informazioni mediante i bosoni di Nambu-Goldstone, che sostengono la persistenza dei domini di coerenza delle preparazioni omeopatiche, chimicamente composte da miscele di acqua/alcol e nanoparticolato. I modi vibrazionali dei medicinali omeopatici possono modulare i modi vibrazionali dell’organismo vivente. Le prove di efficacia in modelli cellulari, vegetali e animali sono aumentate esponenzialmente negli ultimi 20 anni, dando sostegno all’ipotesi per la quale ho scritto, con l’amico Antonio Manzalini, due articoli pubblicati in riviste scientifiche: “Explaining Homeopathy with Quantum Electrodynamics” e “The Quantum Nature of Biological Intelligence”.

In conclusione, credo che il ricorso al metodo scientifico, di cui sono convinto sostenitore, sia uno strumento prezioso che abbiamo per conoscere la realtà. Interrogando la natura con gli strumenti più adatti alle diverse situazioni e coltivando il dubbio si possono aprire strade di grande interesse, che ci aiuteranno a spiegare ciò che ancora non ci è del tutto chiaro.

Un altro tema che incrocia medicina convenzionale e omeopatia è quello della personalizzazione, con una precisazione: l’omeopatia ha sempre ragionato in termini di personalizzazione mentre la medicina convenzionale la sta scoprendo ora…

La differenza concettuale è se si debba curare la malattia o il malato. Risulta sempre più chiaro che ogni individuo ha una sua specificità e singolarità nell’espressione della propria patologia e nel modo con cui reagisce ad essa. Al tempo stesso la complessità dell’organismo ha costretto la medicina a studiare separatamente le singole parti del sistema complesso, andando verso la iper-specializzazione, che ha peraltro consentito di raggiungere straordinari successi sul piano della diagnosi e delle terapie. Questo però ha fatto perdere di vista la singolarità inserita nella complessità.  Un approccio molto diverso, ad esempio, è quello della Medicina Tradizionale Cinese che cerca di tenere insieme complessità e singolarità lavorando ad esempio sui “sistemi”.  Il “sistema rene” ad esempio, pur partendo dal rene, guarda al sistema urinario, ma anche a tutte le funzioni correlate dell’organismo ed esamina infine questo insieme complesso nel caso specifico del malato. In altri termini non si considera un sintomo e l’organo collegato a quel sintomo. L’omeopatia, pur avendo un diverso impianto concettuale rispetto alla Medicina Tradizionale Cinese, conduce il medico a ragionare comunque su singolarità e complessità: considera il malato nella sua individualità (la sua storia clinica, il suo stato psicofisico, il suo lavoro, gli eventi emotivamente significativi della sua storia) e nella sua complessità. La capacità di trovare un equilibrio tra le conoscenze specialistiche e settoriali e la singolarità/complessità del malato è la chiave di volta della medicina: non c’è da trascurare nessun risultato ottenuto dalla ricerca medica più avanzata e specialistica, ma non si deve dimenticare che ogni individuo ha una sua dimensione specifica ed unica.

Questo approccio molto interessante e convincente, si scontra con una risorsa scarsa e costosa: il tempo.

Non c’è dubbio che una prima visita omeopatica necessiti di almeno un’ora per poter raccogliere adeguatamente la storia clinica del paziente. Gli incontri successivi, in linea di massima possono contenersi in un tempo più ridotto, sempre considerando le esigenze della complessità e la gravità della situazione clinica. I tempi previsti per una visita nella sanità pubblica probabilmente sono più ristretti. Però, anche se non sono un esperto di economia della sanità, mi chiedo: quale sarebbe il costo complessivo della gestione di un malato se si sommassero il tempo di visita, la riduzione dell’utilizzo di certi farmaci (ad esempio gli antibiotici), la minor cronicizzazione delle patologie, la riduzione dei tempi di degenza? Credo che un sistema di medicina integrato, che sapesse proporre in modo adeguato e competente i diversi approcci, consentirebbe una riduzione complessiva della spesa sanitaria globale. Alcuni studi comparativi, che hanno incluso l’osservazione dei parametri economici, sembrano confermare questa ipotesi. Mi piace sempre ricordare che il precedente direttore generale dell’OMS, Margaret Chan, nella prefazione al documento “Strategia per le Medicine Tradizionali e Complementari 2014-2023”, auspica una sempre più efficace collaborazione tra esperti delle discipline mediche complementari e convenzionali, affinché ogni paziente possa ricevere la giusta terapia, dal giusto terapeuta, al momento giusto.