Medicina integrata, un’espressione sempre più utilizzata ma i cui contorni non sempre sono bene definiti. Soprattutto, come si “costruisce” la medicina integrata? E, di conseguenza, qual è il contributo che l’omeopatia può dare?
Ritengo che la Medicina Integrata sia la corretta medicina, cioè quella pratica terapeutica in cui confluiscono tutte le conoscenze mediche, per fornire al malato la migliore e più rapida guarigione, grazie anche a un’ottica a 360° della malattia. Da anni l’OMS raccomanda l’uso dell’Omeopatia e della Medicina Tradizionale nella nostra pratica clinica, a fianco della medicina chiamata allopatica.
Ma il processo non è semplice né immediato.
Il successo della Medicina del XX secolo, o allopatica, è legato alla prospettiva riduzionistica il cui paradigma guida è orientato all’approccio clinico al paziente e allo sviluppo di nuovi farmaci che provocano effetti contrari ai sintomi della malattia: l’anti-piretico per la febbre, l’anti-infiammatorio per la flogosi, l’anti-spastico per la colica, l’anti-dolorifico per il dolore.
Fu Samuel Hahnemann, nel XIX secolo, a dare la definizione di “allopatia” alla medicina classica; non in senso dispregiativo, ma per distinguerla dall’altro metodo di cura, anch’esso Ippocratico, che è l’Omeopatia, secondo il quale le malattie si combattono con le stesse sostanze che in dosi tossiche inducono sintomi simili nel sano ma che, diluite tanto da superare la dose soglia (legge di Arnd-Shutz o Ormesi), inducono nel malato la guarigione. E questo perché il sintomo non è la malattia ma l’espressione clinica di una reazione immunologica che si sta attivando, o anche il modo con cui l’organismo comunica la perdita del suo equilibrio omeostatico.
Il meccanismo principale dell’azione dei farmaci omeopatici è la stimolazione di una self-regulation, quella stessa utilizzata in natura da citochine, neurotrasmettitori, ormoni, che all’interno degli organismi viventi (umani, animali, vegetali) permettono alle cellule di dialogare fra loro con segnali regolati nella qualità e nella quantità. I mediatori di questo linguaggio attraversano le membrane cellulari, agiscono in concentrazioni dell’ordine di picogrammi o fentogrammi, le stesse con cui i farmaci omeopatici stimolano l’autoguarigione. Questo dimostra che sostanze farmacologicamente attive, tossiche ad alte concentrazioni per un organismo, diventavano protettive e curative se somministrate in microdosi fisiologiche, poiché vanno a rafforzare la reazione immunitaria dell’individuo.
È innegabile che i farmaci allopatici abbiano salvato migliaia di persone e prolungato l’aspettativa di vita nelle malattie considerate prima incurabili. Tuttavia, hanno anche evidenziato effetti collaterali tossici, oltre che fenomeni di resistenza da abuso prescrittivo, dimostrando che oggi questo approccio non è più sufficiente né sostenibile dai sistemi sanitari nazionali per gli alti costi raggiunti.
Quale può essere il contributo dell’Omeopatia nella moderna Medicina?
Molti cambiamenti sono necessari sia nel sistema convenzionale sia in quello omeopatico e della medicina tradizionale, affinché il campo d’azione delle diverse metodiche terapeutiche possa essere compreso e accettato dalle parti e, di conseguenza, integrato.
Ci sono ostacoli oggettivi al colloquio e allo scambio di informazioni tra i due sistemi di cura che però possono essere superati con impegno e volontà dalle parti. Lo sforzo per illuminare i lati delle Medicine Integrate e dell’Omeopatia in particolare, che per la scienza galileiana sono ancora oscuri, deve mirare a valorizzare, aggiornare e chiarire alcuni concetti che sono a fondamento dell’Omeopatia.
In questo senso si stanno muovendo le più importanti e rappresentative Società di Medicina Integrativa nel mondo: LMHI, ECH, Nazionali (in Italia FIAMO e SIOMI), che hanno creato gruppi di studio che lavorano su diverse problematiche per conseguire obiettivi tra loro condivisi.
Può spiegarci come?
Il primo e forse essenziale progetto riguarda la conversione dei termini e dei concetti utilizzati in omeopatia nel XIX e XX secolo in un linguaggio aggiornato alle conoscenze più recenti e ai progressi della scienza degli ultimi decenni. Ad esempio, parole come “forza vitale”, “miasmi”, “psora”, “sicosi” o “luesinismo” …. per un medico convenzionale possono essere incomprensibili. Eppure, proprio a proposito della teoria dei Miasmi di Hahnemann c’è da dire che essa ricorda “le scoperte sulla ricombinazione genetica e l’organizzazione del materiale genetico” del dottor Joshua Lederberg, premio Nobel per la Medicina nel 1958, deceduto nel 2008. Egli afferma che esiste sempre un’interazione tra ospite e agente infettante, che lui interpreta come occasione evolutiva, riguardante sia i batteri che i virus e gli altri microorganismi, i quali lasciano dei ricordi del loro passaggio nel DNA e nel RNA della specie infettata. Le piccole sequenze, inglobate nel codice genetico dell’ospite dopo l’infezione, sarebbero capaci di promuovere una forma di evoluzione adattiva dell’intero organismo all’ambiente, stimolando e indirizzando sia la risposta immunitaria, che la morfologia dei singoli organi e la loro stessa capacità di adattamento funzionale. La popolazione attuale prende origine dai sopravvissuti dalle grandi epidemie del passato. Ne consegue che le epidemie non esercitano solo una selezione di tipo quantitativo e casuale, ma lasciano dietro di sé ricordi e tracce genetiche del loro passaggio, destinate ad essere trasmesse ai figli dei sopravvissuti e a tutta la loro discendenza.
Adeguare il linguaggio ai tempi e ai traguardi della scienza faciliterebbe il dialogo e le due opposte ottiche terapeutiche diventerebbero complementari fino ad integrarsi in una visione a 360° di quella che per la medicina allopatica è un una malattia da azzittire mentre per la medicina omeopatica è una “benattia” da ascoltare e potenziare.
Quale altra problematica deve essere affrontata?
Un altro importante vuoto da colmare è quello di creare raccolte di casi clinici curati con farmaci omeopatici e altre MT. La critica spesso rivolta all’Omeopatia e alle MT è quella di non avere studi pubblicati, di non conoscere il meccanismo d’azione del farmaco diluito sull’organismo. Se per la ricerca di Base si stanno scoprendo delle verità è pur vero che non si ha ancora la certezza.
Nella ricerca clinica invece esistono certezze sull’efficacia dell’omeopatia che, in alcune patologie, è uguale o superiore all’allopatia. Quel che manca sono i numeri: la descrizione di un singolo evento solleva la critica che probabilmente è avvenuta per caso. Ma se i casi sono decine o centinaia o più, non sarà l’eccezione ma la regola che si ripete. Secondo la legge di Bernulli se un evento isolato si ripete un numero di volte che tende all’infinito allora l’evento non sarà più un caso ma una certezza.
A mio parere, gli omeopati devono fare questo sforzo di raccogliere in un database centinaia di casi trattati, coi quali dimostrare che la guarigione non avviene a caso ma che si ripete costantemente su un grande numero di malati. Sarà materiale utile per gli studenti e materiale di confronto con i colleghi della ricerca scientifica.
Altro impegno deve riguardare la ricerca. È noto che la ricerca clinica, e ancor più quella di base riguardante gli studi sul meccanismo d’azione delle basse e delle alte diluizioni omeopatiche, hanno costi sostenuti che richiedono finanziamenti, così come nella ricerca convenzionale. Servirebbero, dunque, maggiori finanziamenti per reperire attrezzature, personale e materiali oltre che costi per la pubblicazione e divulgazione dei risultati.
Occorre, inoltre, migliorare la comunicazione, attraverso i social e la stampa, che spesso ci sono preclusi. Questo al fine di informare i pazienti (che possono usufruire di un più vasto bagaglio terapeutico), i medici (perché sappiano quale valore può costituire la medicina Integrata), le Università, (affinché la formazione venga inserita nei programmi dei Medici, Farmacisti, Veterinari e Agronomi).
L’omeopatia è nata in un’epoca in cui, certamente, la medicina non era certo in grado di misurare quantità così piccole. Come è stato possibile quindi arrivare a questa intuizione?
Dobbiamo essere grati ad Hahnemann che più di 200 anni fa si impegnò nel concorso rivolto dal governo britannico agli scienziati del tempo per individuare la dose minima, non tossica ma ancora efficace, di chinino per la cura della Malaria che colpiva i suoi uomini inviati nelle Colonie. Il Chinino infatti era efficace nella cura ma era penalizzato da effetti collaterali come dissenterie gravissime. Hahnemann, come altri, iniziò a diluire il farmaco in cerca della “dose minima inibente” e, ad ogni passaggio di diluizione agitava la soluzione per rendere uniforme la distribuzione. Vide così che dosi ponderali di sostanza provocavano gli stessi sintomi della Malaria, seppure non fosse stato punto dalla zanzara mentre dosi molto diluite (e molto succusse) curavano quegli stessi sintomi che avevano procurato. Ebbe allora la grande intuizione di scoprire che al di sotto di una certa soglia il farmaco invertiva la sua azione. Fu così che, con una sperimentazione su sé stesso, Hahnemann scoprì quella che Ippocrate definiva “Contraria contraris curantur” e “Similia similibus curantur”, che circa 100 anni dopo due scienziati, Arndt e Schulz definirono Legge della dose soglia e che duecento anni dopo fu chiamata Ormesi. Allo stesso tempo Hahnemann capì che agitando le soluzioni, ne aumentava il potere curativo.
A quelle diluizioni le sostanze avevano concentrazioni simili agli enzimi, agli ormoni e ai neurotrasmettitori, che permettono alle cellule di comunicare tra loro attivando delle reazioni. Il farmaco omeopatico, insomma, ha l’intelligenza di penetrare e di interferire con l’organismo malato usando le stesse quantità, lo stesso linguaggio, che le cellule dei viventi comprendono, ripristinando il loro corretto funzionamento perché siano in grado di reagire. Questo spiegherebbe anche l’iniziale “aggravamento” legato alla spinta reattiva che il farmaco induce e che si somma alla reazione endogena espressa dai sintomi peculiari del malato.
Ma la medicina convenzionale non pare particolarmente disposta a dialogare con l’omeopatia…
Cambiare modo di pensare e di agire è difficile, soprattutto quando la tecnica da adottare richiede molti anni di studio come nel caso delle medicine tradizionali e dell’omeopatia. Inoltre, le ricerche in omeopatia sono contestate sono contestate da un lato perché il linguaggio usato non è compreso dai non-omeopati, dall’altro perché i casi raccolti e analizzati sono pochi. Ma c’è un terzo motivo, che è il diverso approccio terapeutico: la medicina convenzionale lavora spesso e principalmente sul sintomo per cui un anti-infiammatorio sopprime il sintomo che però non è la malattia ma il linguaggio attraverso cui il corpo comunica che qualcosa non funziona come dovrebbe. L’omeopatia, invece quel sintomo lo valorizza e cerca la sostanza che lo imiti per potenziare la reattività dell’individuo.
La medicina convenzionale non sempre comprende questa interpretazione della malattia e di conseguenza una possibilità terapeutica diversa.