Lorenzo Romano Amedeo Avogadro è stato un valente chimico italiano dell’ottocento che, a differenza di tanti suoi predecessori che hanno cercato di interpretare i processi della chimica a modo loro (financo chiamando in causa il fantomatico “flogisto”), non dava numeri a caso. In effetti il principio che lui enunciò nel 1811, anche se non compreso fino al 1860, ne ha permesso uno solo, ma di estrema importanza (si chiama costante di Avogadro) ed è alla base del Sistema Internazionale di Misura. Dal momento della sua accettazione, le reazioni chimiche potevano avvalersi di rapporti quantitativi stechiometricamente esatti, cosa non di poco conto se pensiamo alle necessità di una scienza che trae dalla matematica l’essenza stessa della sua esistenza.
Senza scendere in noiosi dettagli tecnici, è forse per questo motivo che Avogadro è e rimane il vessillo al quale si aggrappano gli oppositori anti-omeopatia, ammantati di una scienza approssimativa, per affermare che oltre una determinata dinamizzazione nei medicinali omeopatici non rimane traccia del prodotto di partenza. Questo dice il numero di Avogadro e che gli omeopati se ne facciano una ragione: non si possono avere effetti biologici con il nulla.
Pur tralasciando le centinaia di studi che smentiscono la suddetta teoria degli oppositori e ricordando che gli omeopati utilizzano quotidianamente anche dinamizzazioni entro il numero sdoganato di molecole, fortunatamente tra la teoria e la pratica è sempre quest’ultima ad avere l’ultima parola. Le molecole non sono biglie che si possono manipolare singolarmente e l’esperienza ci dice che con l’aumentare della diluizione, la concentrazione tende a zero, fenomeno che viene definito “funzione asintotica”, come dicono quelli bravi nella materia; un po’ come il sofisma di Achille e della irraggiungibile tartaruga. I limiti funzionano così e ci impediscono, in tal modo, non solo di manipolare e/o spaccare le molecole in frammenti, ma anche di contrabbandare una teoria come scienza sperimentale.
Come se ciò non bastasse, cominciano ad essere sempre più numerosi i gruppi di ricerca che ritrovano tracce di principio attivo identificabile in dinamizzazioni omeopatiche abbondantemente oltre il fatidico numero. Non dimentichiamoci, infatti, che il solvente in questione è l’acqua, la sostanza più disponibile al mondo ma meno conosciuta nelle sue modalità teoriche di comportamento. Basti pensare che il migliore modello descrittivo dell’acqua è tutt’oggi ampiamente in discussione e sfugge a sofisticati calcoli di dinamica molecolare per tempi superiori ai trilionesimi di secondo. Resta il fatto che le molecole d’acqua alla sua superficie sono più legate fra loro di quelle all’interno e quindi meno propense alla formazione di legami con molecole del soluto. Di conseguenza, le molecole ospiti si aggregano in nanoparticelle vicino alla superficie e se il prelievo per la diluizione avviene alla superficie per non introdurre errori sistematici (nelle industrie vien fatto automaticamente) la legge della diluizione non viene più rispettata. In altre parole, si diluisce meno di quanto creduto, in barba a qualunque numero (teorico) di Avogadro.
Se questi nuovi scenari potranno un giorno spiegarci il funzionamento di un medicinale omeopatico è ancora presto per dirlo. Di sicuro le nanoparticelle rimangono lì, imperterrite, a sbertucciare chi si ostina a negare queste prove sperimentali e la lotteria delle spiegazioni dell’omeopatia si arricchisce di questo nuovo arrivo che si pone accanto a una poco plausibile memoria dell’acqua (considerati i numerosissimi cambiamenti di conformazione delle molecole acquose nell’arco di frazioni di secondo), a una affascinante finestra sulla teoria dei quanti (ancora poco approfondita e, quindi, spesso difficilmente confutabile) e tante altre che negli anni si sono andate teorizzando.
Gli omeopati attendono fiduciosi, sostenuti nel frattempo dalla soddisfazione dei loro pazienti. Ed è forse proprio per rassicurare questi ultimi e nel fornire loro una ragionevole spiegazione che qualche appassionato omeopata prenda posizioni nette a favore dell’una o dell’altra teoria, scartando con decisione le rimanenti. Va però sempre ricordato che in assenza di prove sperimentali qualunque teoria, per quanto destabilizzante possa essere per la disciplina e i propri utilizzatori, non può subire una cancellazione a priori: il rischio è quello di trovarsi a braccetto con gli stessi scettici che, altrettanto aprioristicamente, decretano l’inutilità della creatura di Hahnemann. Il tutto sotto lo sguardo divertito delle nanoparticelle che continuano a passare di diluizione in diluizione, dimostrando che, in fondo, forse anche loro potrebbero giocare una parte importante in questo nuovo volto della farmacologia moderna.