Ivan Cavicchi, filosofo della scienza, esperto di politiche sanitarie, docente presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Tor Vergata (Roma), sta per dare alle stampe un libro dal titolo: “L’evidenza scientifica in medicina. Uso pragmatico delle verità”. L’evidenza è l’elemento discriminante con cui si valutano terapie, teorie mediche, interi settori della medicina. Eppure, quello che potrebbe sembrare un principio logico perfino banale – è vero quello che è dimostrabile e ripetibile – in realtà, alla prova dei fatti, si rivela ricco di contraddizioni. E se nella fisica e nelle altre discipline scientifiche, almeno a partire dalla teoria della relatività per continuare con la quantistica, il metodo cartesiano e galileiano hanno vissuto una profonda evoluzione, tutto questo non è avvenuto in medicina. Il lavoro di Cavicchi ragiona proprio su questo tema e con lui ne abbiamo parlato.
1. Un libro sulla medicina dell’evidenza. Perché ha sentito la necessità di occuparsi di questo tema?
Le evidenze scientifiche sono cose ritenute vere, ma in realtà si tratta di verità convenzionali e come tutte le verità convenzionali sono in continua evoluzione. Quella che viene considerata in un determinato periodo storico come evidenza inconfutabile, nei decenni successivi incontra smentite e contraddizioni, quindi la scienza elabora una nuova verità convenzionale che comprende le nuove evidenze e supera le contraddizioni della “verità” precedente. Quando si perde la consapevolezza della verità come convenzione e si pretende di trasformarla in una verità assoluta, si cade in un errore drammatico. In particolare, se la medicina finisce per fondarsi su questa debolezza di fondo, finisce che viene messa in discussione tutta la medicina.
2. Lei nel libro, tra le altre molte cose, sostiene che sta prevalendo nella medicina un fondamento teorico che risale addirittura al ‘600. Cosa c’è che non va in questo, in fondo la scienza e il metodo scientifico nascono proprio in quel momento, tra Cartesio e Galilei, solo per dare due riferimenti arcinoti.
Nel mio libro sono partito dal ‘600 perché è un’epoca molto interessante, è il periodo in cui in effetti nasce quello che viene definito il “metodo scientifico”, fondato appunto sulla evidenza in particolare. In più il ‘600 è il secolo del barocco, è esso stesso barocco, ostentazione. E anche discipline come la matematica e la geometria diventano strumenti di tale ostentazione: dare esattezza alla “verità” scientifica considerata evidente, quindi inconfutabile. Nasce la “teometria”, ossia il tentativo di rappresentare Dio attraverso proporzioni geometriche. Persino le sacre scritture vengono interpretate in termini matematici e le omelie vengono espresse in linguaggio matematico, in quanto linguaggio della verità assoluta. Ma il mondo è più complesso e ciò che appare evidente non sempre lo è e questo tentativo non regge nel tempo, emergono inevitabili le contraddizioni. Basti dire che l’Illuminismo fa piazza pulita della metafisica e che nell’Encycolpédie la voce “evidenza” è trattata come un’altra faccia della metafisica.
3. D’altra parte sembra tutto molto logico: io prendo un farmaco solo se alle spalle di quel farmaco ci sono studi, esperimenti e ricerche che dimostrano – evidenza scientifica – che quel farmaco ha guarito tante persone affette dal mio stesso malanno. O no?
Giusto, infatti non penso e non sostengo che l’evidenza non sia un punto di vista corretto, ma non rappresenta in sé una verità assoluta. In medicina ad esempio c’è la variabilità del malato. È indubbio che non tutte le persone, pur affette dal medesimo male, reagiscono in maniera diversa allo stesso farmaco. L’evidenza è corretto usarla, ma sapendo bene che si tratta di una parzialità. Rappresenta tutt’al più una verità pragmatica. Il punto fondamentale per un medico è non essere dogmatico. Il medico bravo non può porsi come obiettivo quello di aderire a una evidenza, bensì di essere efficace. E sotto questo profilo si apre il tema della formazione dei giovani medici: l’importanza di saper esercitare, con intelligenza e competenza, l’arte del dubbio rispetto alle verità convenzionali.
4. Stando a quanto lei afferma è importante dare spazio e riconoscimento a una medicina che potremmo definire “dell’efficacia”, cioè se io ho adottato una determinata terapia e mi sono sentito meglio vuol dire che quella terapia funziona. Messa in questi termini non si rischia di allargare troppo le maglie?
Tutte le scuole – anche le cosiddette medicine complementari – hanno le loro verità, questa di cui parliamo è una verità empirica. Non ha senso condannarle perché “non scientifiche”, ossia perché non rispondono ai parametri stabiliti dalla medicina dell’evidenza. Come non ha senso condannarle a priori non tenendo conto del punto di vista del malato. Oggi si predilige la medicina fondata sulla statistica: se una certa percentuale di malati reagisce bene a un farmaco, quel farmaco funziona. Ma questo non tiene conto che c’è un’altra percentuale di malati – per quanto bassa possa essere – ai quali quel farmaco non ha fatto nulla, ma sono guariti o stati meglio grazie ad altre tipologie di farmaci o di medicine. Ha senso “cancellare”, rimuovere l’esperienza di quei malati? Io penso di no. Le medicine complementari, infine, non possono essere giudicate e misurate con i medesimi parametri della medicina dell’evidenza: c’è un problema di incommensurabilità, le due medicine non sono misurabili con gli stessi metodi, proprio perché partono da presupposti completamente diversi. Sarebbe come pretendere di valutare la bravura di un giocatore di calcio misurando quanti canestri realizza su un campo di basket.
5. Quale può essere una buona integrazione tra la medicina convenzionale e le medicine complementari?
L’integrazione c’è già: conosco migliaia di medici che lavorano insieme, si confrontano, collaborano. Quello di cui c’è bisogno è però che questa convivenza sia definita. I roghi – anche solo metaforici – non hanno senso. Bisogna però definire i perimetri di uso dell’omeopatia, ad esempio. Bisogna lavorare su quelle che io definirei due teorie compossibili, cioè senza contraddizioni, che trovano un terreno comune di convivenza. Naturalmente l’omeopatia deve restare all’interno di un uso ragionevole. È la seconda medicina usata nel mondo e di questo si deve prendere atto, senza scandali. Dal dopoguerra ad oggi abbiamo assistito a un cambiamento profondo: siamo passati dal paziente all’esigente, cioè il malato è una persona, non una “malattia”, e come tale ha idee, cultura, abitudine e vissuto suoi propri. E tutto questo deve entrare nel percorso terapeutico. Il malato vuole essere curato, ma vuole essere anche partecipe della cura. La relazione terapeutica è fondamentale. Tutto ciò ha favorito gli approcci olistici. Il malato è un malato “al singolare”. La medicina della statistica non può essere l’unica, solitaria, esclusiva risposta.