Professore, lei non è un omeopata, perché si è avvicinato a questa medicina e in che modo il suo percorso scientifico multidisciplinare (chimica, fisica quantistica, biologia) è stato un punto di forza nelle sue ricerche sull’omeopatia?
Sono sempre stato un uomo curioso per natura, infatti, quando mi trovo di fronte a un argomento che non conosco, o non capisco, tendo a voler scavare in ogni suo aspetto per coglierne tutta la complessità, mettendomi a studiare le discipline a cui l’argomento è collegato. E così è stato, quando mi sono avvicinato all’omeopatia: è stato importante avere una visione trasversale, senza rimanere confinato al mio punto di vista chimico. L’omeopatia si rivolge all’essere umano nella sua interezza e da questo deriva l’esigenza di trasversalità.
È forse la mancanza di multidisciplinarietà da parte degli scienziati odierni la causa dell’errata comprensione dell’omeopatia?
All’origine di questa errata comprensione ci sono due fattori. Il primo è che le persone non sanno cosa si studi nelle altre discipline. Di conseguenza quando abbiamo una visione molto ristretta di un argomento, per capirlo, tendiamo a usare sempre la nostra specializzazione, ma se la spiegazione si trova in un’altra disciplina, difficilmente troviamo la voglia di approfondire questa traccia per comprendere appieno l’argomento. Il secondo, è l’ego dell’essere umano, il quale tende a valorizzare solo sé stesso. Infatti, quando il ricercatore ha un elevato livello di competenza, tende a voler dimostrare di avere sempre ragione.
Solo se si riescono ad integrare insieme tutte le discipline, biologia, chimica o fisica, si è sempre pronti a leggere e capire di omeopatia.
Come vede il futuro dell’omeopatia?
Nei Paesi in via di sviluppo, dove la medicina tradizionale ha costi proibitivi, milioni di persone fanno ricorso all’omeopatia, ne è un esempio l’India, dove 400 milioni di persone utilizzano cure omeopatiche, in quanto sono più vicine alla loro cultura e al loro approccio medico ancestrale, ma soprattutto hanno costi minori. Ad oggi, in Europa, vedo il futuro dell’omeopatia complicato; al contrario, nei Paesi emergenti l’omeopatia sta assumendo sempre più importanza, perché diventa una medicina “di necessità”. Sono fiducioso quindi che questo avanzamento avrà risvolti positivi anche sugli altri Paesi.
Qual è la sua visione dell’industria farmaceutica oggi?
Siamo passati da un’epoca in cui bisognava curare in massa e rapidamente le popolazioni, a un mondo in cui dobbiamo capire perché e come funziona un medicinale. Per questo motivo la medicina moderna investe enormi quantità di denaro nella ricerca, ma non nella ricerca omeopatica.
Ne abbiamo un esempio lampante nel progetto “DynHom”, grazie al quale è stata evidenziata l’azione concreta della dinamizzazione, che pur avendo portato a un’importante scoperta scientifica, non ha avuto lo stesso sostegno finanziario della medicina tradizionale.
Ha appena citato la dinamizzazione, perché è così importante nell’omeopatia?
La dinamizzazione è una pratica pseudoscientifica che indica la particolare metodologia di produzione dei preparati omeopatici. Bisogna partire dalle origini per spiegare la sua importanza. Il medico tedesco Samuel Hahnemann, fondatore dell’omeopatia, vedeva nella malattia un fenomeno dinamico: più concretamente, ha ipotizzato che il corretto funzionamento e la salute del corpo dipendono dalla dinamica, e che, quando questa incontra un problema si da il via a uno stato patologico e quindi alla malattia. Secondo Hahnemann per ritrovare un corretto sviluppo non basta aggiungere della materia, occorre dinamizzarla e trasformarla in modo che corrisponda all’evoluzione della malattia, così che il corpo possa reagire a queste due dinamiche e ritrovare l’equilibrio. Di conseguenza, una semplice soluzione diluita non avrebbe mai lo stesso effetto: è necessario porre il medicinale omeopatico in uno stato dinamico compatibile a quello della malattia, al fine di agire profondamente su di essa.
Ha più volte affermato nelle sue interviste che “l’omeopatia non usa l’energia”, ci può spiegare meglio cosa intende?
Occorre sapere che tutte le vibrazioni sono propagate da onde che veicolando un segnale, un’informazione, e l’omeopatia è proprio questo: utilizza l’onda elettromagnetica come propagatore del segnale di un’informazione. L’energia è solo un mezzo, non un fine; infatti entra in gioco solo quando è necessario produrre l’onda elettromagnetica. Al contrario, l’omeopatia è una tecnica che trasmette l’informazione. Per semplificare potremmo paragonare il metodo di funzionamento dell’omeopatia con la propagazione di un’emissione radio; il medicinale è l’emittente, il messaggio omeopatico l’onda e il corpo sarà il ricevente del messaggio.
Può dirci di più sul meccanismo d’azione dell’omeopatia come tecnica di trasmissione delle informazioni?
Tutto in natura rimanda a ciò che viene definito la “fisica quantistica dei campi”: qui non si tratta della fisica che ci insegnano alla facoltà di ingegneria, ma quando si parla di omeopatia, si parla di una fisica particolare, che mette in campo la seguente idea: in natura, il concetto di materia non esiste, tutto è vibrazione. Ossia, la materia è caratterizzata più dal suo spettro di frequenza (l’onda elettromagnetica, la vibrazione) che non dalla sua composizione chimica (la materia). Quindi, con l’omeopatia andiamo a cercare due cose: ciò che ha senso per un paziente, e lo cerchiamo attraverso i suoi sintomi; e ciò che ha senso in una sostanza minerale, vegetale o animale, che ha la capacità di scatenare gli stessi sintomi, e quindi lo stesso insieme di informazioni. È incrociando queste due informazioni che riusciamo a produrre una reazione che sia funzionale per il malato. Se crediamo alla teoria della sincronicità di Carl Gustav Jung, tra i fondatori della psicologia analitica, il trattamento omeopatico scatenerà degli effetti: questo significa che il corpo reagisce non a una sollecitazione materiale, ma a una sollecitazione di informazioni prodotte dal trattamento omeopatico, attraverso una similitudine (risonanza) tra spettri di frequenza.