I dati dell’ultimo Rapporto “L’uso degli antibiotici in Italia” dicono che in Italia si continua a ricorrere all’uso di antibiotici in misura eccessiva e, verrebbe da dire, in maniera indiscriminata, rispetto alla media europea. Lei come si spiega questo fenomeno?

I numeri in Italia sono effettivamente molto alti, siamo l’ultimo Paese in Europa per infezioni ospedaliere, 530.000 casi ogni anno. A spiegare questa peculiarità, ci sono motivazioni differenti e, in qualche modo, contrastanti. Partiamo da un dato positivo: il nostro Paese ha una sanità di ottimo livello e molto capillare; in particolare sul fronte della pediatria vantiamo una rete di assistenza che gli altri Paesi europei non hanno, come ad esempio il pediatra di famiglia. In UK, ad esempio, non c’è questo tipo di assistenza. Questo significa che sono molti i bambini visitati da un pediatra e ciò comporta come conseguenza un maggior utilizzo di farmaci pediatrici di tutti i tipi rispetto a altri Paesi europei che hanno un’assistenza sanitaria meno dedicata. E, ripeto, questo è un dato positivo perché vuol dire che i nostri bambini sono curati e molto bene. C’è però l’altra faccia della medaglia, il rischio della iper-prescrizione.

 

Benissimo, ma qui parliamo di antibiotici, quando è noto che un uso eccessivo e non mirato di questi farmaci è dannoso per tutti, oltre ad essere inutilmente costoso per il Sistema Sanitario Nazionale.

Le iper-prescrizioni sono un problema, non c’è dubbio. Le ragioni sono molteplici: la mamma italiana, si sa, è tendenzialmente un po’ ansiosa quindi sollecita il medico perché intervenga in modo risolutivo, rapido. Il pediatra, di conseguenza, per eccessivo scrupolo prescrive l’antibiotico anzitempo, con l’idea di prevenire comunque evoluzioni che potrebbero essere più gravi. Non dimentichiamo che il medico agisce con scienza, coscienza, ma anche con emozione. E questo può portare ad agire prima che siano passati i canonici 3 giorni di febbre. Nella prescrizione e nella cura giocano più attori: mamma, bambino, medico. È un dato importante e positivo, ma a volte può anche indurre scelte un po’ precipitose.

 

Cosa si può fare perché i genitori siano rassicurati e i medici più cauti nella prescrizione di antibiotici?

Occorre informare, spiegare bene. La scienza cambia nel tempo: ad esempio 20 anni fa si credeva corretto e utile l’impiego degli antibiotici “come copertura”, cioè in una funzione quasi preventiva. Oggi questa strada è stata totalmente abbandonata, non tanto perché inefficace ma proprio perché dannosa. Su questo occorre fare informazione, ai genitori soprattutto. Gli antibiotici si devono usare solo quando è chiaro che siamo di fronte a una infezione di tipo batterico; in tutti gli altri casi, non sono il farmaco adeguato e quindi il loro ricorso ingiustificato aumenta il rischio di generare antibiotico resistenza. Chi – come i medici omeopati – conosce le medicine complementari può fare molto nei primi giorni di infezioni virali, senza usare farmaci tradizionali e utilizzando il meno possibile gli antipiretici. Anche questa è una pratica che trovo eccessivamente diffusa e non corretta. Per il nostro corpo la febbre è una risorsa importante e non va contrastata prima che insorga o che abbia valori elevati: la febbre è il metodo che ha il nostro corpo per “bruciare” i virus, quindi bloccare la febbre significa bloccare un meccanismo che lo difende.

 

Come può il medico distinguere un’infezione batterica da una virale?

Prima di tutto bisogna visitare! Visite accurate, dalla testa ai piedi. Bisogna conoscere il più possibile la storia del paziente, in questo caso del bambino. Poi in caso di tosse, raffreddore e stato febbrile che sale e che scende, se l’infezione non è collocata in un punto preciso, la probabilità che sia di tipo virale è molto alta. Infatti, nella maggior parte dei casi in età pediatrica le infezioni sono di origine virale, quindi bisogna astenersi e aspettare i canonici 3 giorni di febbre conclusi. Al quarto giorno si può pensare di procedere con l’antibiotico, anzi in quel caso l’antibiotico è la risorsa terapeutica indispensabile. Ma prima di arrivare a quella decisione, ci sono altre risorse terapeutiche che possono essere messe in campo dal medico.

 

Quali ad esempio?

Agli inizi della mia pratica medica mi sono chiesta “cosa posso fare di fronte a bimbi con infezioni virali, per dare indicazioni giuste ed evitare le complicazioni? È stato lì che ho scoperto le medicine complementari e, in particolare, l’omeopatia. Penso che la medicina sia una scienza unica, composta da tutto quello che sappiamo, comprese le tradizioni, quello che era conosciuto nella pratica medica 2000 anni fa, in Cina o in India. La nostra sete di conoscenza ci deve portare a un approccio ampio, conoscere cose nuove integrandole con la storia e le tradizioni terapeutiche consolidate da secoli di esperienza pratica. Il problema non è usare gli antibiotici, ma usarli quando servono e sono realmente utili: se l’infiammazione è dovuta a un batterio non ci sono dubbi, bisogna procedere immediatamente con la terapia antibiotica. E su questo sono molto rigorosa: dosi giuste (e non abbreviate) e per il tempo giusto, cioè otto giorni.

 

Secondo il Rapporto che citavamo all’inizio, nel corso del 2019 il 40,9% della popolazione pediatrica (0-13 anni) ha ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici sistemici. In particolare, la più elevata esposizione agli antibiotici nei bambini è stata osservata nella fascia di età tra 2 e 6 anni, con una media di circa 1,5 prescrizioni di antibiotici all’anno. Che giudizio dà, lei pediatra, di questo dato? 

Da me arrivano bimbi con situazioni disastrose: ho visto piccoli pazienti che a 3 anni hanno già preso 30 terapie antibiotiche! Tra l’altro, io dico sempre che tra un ciclo e l’altro di cure antibiotiche – anche quando è giusto intervenire con l’antibiotico – bisogna aspettare almeno 1 mese, perché 1 mese è il tempo che serve a rigenerare la flora batterica… altrimenti il bambino è sempre più indebolito dal punto di vista del sistema immunitario e si alimenta un circolo vizioso da cui non si esce più.

Poi è fondamentale la prevenzione e purtroppo questa parola nella medicina convenzionale non trova molto spazio. Nelle medicine complementari è invece un pilastro solidissimo, nell’omeopatia in modo particolare. L’omeopatia stimola le difese di ciascuno di noi, anche se non sappiamo ancora esattamente come, ma ne abbiamo dimostrazioni pratiche a iosa. Insieme a un corretto stile di vita – proprio come sosteneva Hahnemann – i farmaci omeopatici costituiscono un ausilio importante per rafforzare le difese del nostro organismo, senza dar luogo nella maggior parte dei casi a controindicazioni.

 

Ma come reagiscono i genitori dei suoi pazienti quando lei interviene con farmaci omeopatici o comunque ricorrendo alle medicine complementari?

Chi viene da me è spesso “disperato”, nel senso che ha già provato altre soluzioni, senza successo. Soprattutto i padri esordiscono dicendo “Guardi io non credo all’omeopatia, ma tentiamo anche questa”. Io rispondo: “Per me va bene, basta che lei faccia quello che le dico, poi vediamo”. Alla fine sono proprio loro, i papà, a diventare i più forti sostenitori dell’omeopatia.

 

Un’ultima domanda: lei come è arrivata all’omeopatia?

Come San Paolo sono stata folgorata: a quel tempo lavoravo in ematologia e oncologia pediatrica alla Clinica De Marchi di Milano. È nato il mio secondo figlio e sono emersi presto problemi di allergia asmatica. Una notte ha avuto una reazione violenta a una terapia ipoallergenica, ho temuto che non superasse la crisi, ho temuto di perderlo. E lì è vacillata la mia fiducia assoluta nella medicina e nella scienza. Una collega, incontrata casualmente, mi ha proposto un corso di omeopatia. Mi sono iscritta al corso e, soprattutto, ho portato mio figlio da un medico anche omeopata che lo ha curato in maniera straordinaria: in un solo mese il problema dell’allergia asmatica è stato risolto e oggi, a 35 anni, sta benone. Da allora ho continuato ad approfondire questa disciplina terapeutica e ora, a mia volta, esercito come medico omeopata.  La mia esperienza personale mi ha mostrato come in medicina occorra avere la mente aperta, non procedere per dogmi e utilizzare più attrezzi. Occorre studiare, studiare molto; io ho studiato e continuo ancora a farlo.

 

Leggi anche: Il medico pragmatico