La pubblicazione del libro ‘L’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità’ di Ivan Cavicchi, noto sociologo della medicina, ha suscitato un’interessante discussione, che rappresenta un momento importante di riflessione sulla metodologia clinica nella medicina moderna e, in particolare, sul valore e l’importanza della medicina basata sulle prove di efficacia (EBM), sui suoi limiti, i difetti di applicazione e interpretazione (come si è visto in modo eclatante durante la pandemia), in sostanza il suo ruolo nella pratica clinica.

L’autore non nega l’importanza delle evidenze in medicina, senza le quali anzi sarebbe ‘impensabile avere una medicina scientifica’, così come per il medico ‘sarebbe impossibile fare il suo mestiere’, e guarda alla medicina come una scienza umana e quindi al medico e al paziente come interlocutori della verità scientifica.

L’EBM non può però essere intesa come una gabbia, una prigione senza uscita, meglio pensare quindi a una pragmatica della medicina proponendo la figura di un medico pragmatico, che possa cioè ragionare in modo non meccanico, scegliendo di volta in volta ciò che è più utile per il malato.

L’autore inoltre non pone il problema del ‘potere’ dell’EBM, di come il movimento basato sull’evidenza scientifica in medicina sia esclusivista e pericolosamente normativo per quanto riguarda la conoscenza scientifica e di come le scienze della salute siano ‘colonizzate’ da una ricerca scientifica onnicomprensiva post-positivista, che arriva a escludere forme alternative di conoscenza e quindi che agisce come una struttura autoritaria, così come sostenuto da Deve Holmes e coll. nel 2006.

Fine ultimo dell’autore è opporsi alla prospettiva di una medicina fatta solo di esami di laboratorio, ma senza la presenza del medico. Medico la cui formazione deve per forza essere ispirata alla medicina della persona, senza cui la medicina cessa di essere tale e diventa pura tecnologia.

Il medico deve affrontare ogni giorno problemi reali, che escono dalla visione teorica dell’evidenza e si confrontano con la Real World Evidence. L’esperienza acquisita negli anni e la propria cultura sanitaria gli permettono di valutare il paziente come un individuo nel suo complesso psico-fisico e quindi di fare diagnosi e terapia avendo anche, ma non solo, il riferimento all’EBM.

Secondo Cavicchi, le evidenze scientifiche, lungi dall’essere dogmi, devono essere considerate ‘verità paraconsistenti’ che si devono indubbiamente valutare, ma improntate da un sano pragmatismo, per giungere a una coraggiosa rivisitazione della medicina scientifica e a ridefinire la figura del medico e dell’operatore sanitario del futuro.

Che aggiungere a queste considerazioni, che condividiamo in toto nella loro essenza? Forse andrebbe segnalato che il medico di medicina complementare nell’esercizio della propria attività sanitaria corrisponde a 360° alla figura del ‘medico pragmatico’.

Parliamo di chi quotidianamente lavora a partire dai dati della scienza e scegliendo per ogni paziente un trattamento che si adatti alle specifiche esigenze della persona, a partire dalla propria storia personale, cercando di individuare quale sia la specifica modalità con cui il paziente esprime la propria malattia.

Non si tratta, almeno nel caso dei sistemi medici complementari più importanti, di una semplice narrazione dei sintomi nel loro dettaglio e con le loro sfumature individuali: questi sintomi rappresentano gli elementi costitutivi indispensabili della diagnosi e conseguentemente della terapia.

Il medico di medicina complementare è un medico bilingue, se così lo si può definire, un medico che conosce i dettami della medicina convenzionale e li applica, ma aggiungendo a questo la conoscenza e la pratica di una medicina complementare, con principi e paradigmi diversi ma sempre aderenti al principio dell’individualizzazione terapeutica.

I protocolli si possono, e in situazioni particolari come nel caso delle epidemie quale quella in corso, si devono applicare, ma non sono la norma.

La norma è l’appropriatezza terapeutica, che tiene in debito conto le prove di efficacia (senza farne un dogma), ma anche il vissuto del paziente, i suoi desideri e le sue avversioni, e ne fa un elemento imprescindibile di diagnosi e di trattamento.

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