La medicina che cambia: il rapporto medico-paziente

Nella seconda puntata del nostro viaggio nella medicina che cambia abbiamo intervistato Luca Speciani. Laureato in medicina ma anche in scienze agrarie, da anni si interroga su come la medicina stia cambiando e perché stia attraversando una crisi. Ha sperimentato con successo nuovi approcci terapeutici.

In un suo recente articolo affronta il tema dell’evoluzione del rapporto medico-paziente, introducendo anche il termine “medicina di segnale”, ci può spiegare meglio?

Il mio è stato un percorso professionale molto particolare: mi sono laureato prima in Scienze Agrarie e, poi in Medicina e Chirurgia. Questo mix di competenze – per quanto stravagante – mi è risultato molto utile per l’apertura mentale e la molteplicità di approcci che mi ha regalato. La professione medica l’ho iniziata in età già largamente adulta e credo che questo mi abbia consentito di entrarvi con spirito attento e critico. La mia prima esperienza, mentre mi stavo specializzando, l’ho fatta da tirocinante presso un medico di base: una mattina abbiamo trattato, tra ricette e visite, ben 67 pazienti! Ecco per me quello è stato un primo campanello d’allarme che qualcosa in quel sistema non stava funzionando: è impossibile in 3 minuti a paziente formulare una diagnosi e, soprattutto, conoscere a fondo la persona che si ha davanti e dedurne un quadro clinico completo e sensato.

Perciò, nella mia successiva esperienza medica ho cercato di adottare un approccio radicalmente diverso e mi sono trasformato in un “medico di segnale”, ovvero in colui che si occupa del paziente a 360° e che fa confluire in un’unica visione ogni segnale provenga dal racconto e dall’analisi della persona. Ecco, credo che proprio da qui nasca la crisi del rapporto medico-paziente: dal poco tempo che reciprocamente ci si concede. Il medico finisce per essere quello che prescrive farmaci a profusione, ma non si occupa del paziente nella sua interezza di individuo. Per questo, insieme ad altri colleghi, ho dato vita a AMPAS, l’Associazione Medici per un’Alimentazione di Segnale: siamo medici integratori che non si soffermano solo sulla malattia, ma indagano ogni abitudine per diagnosticare la malattia e prescrivere le cure adeguate e, soprattutto, creare un rapporto empatico con il paziente.

Secondo lei, quindi, la sfiducia nei medici nasce da un rapporto sempre meno personale tra medico e paziente. Che ruolo ha in questo quadro la tendenza alla iperspecializzazione?

Oggi i pazienti vogliono essere ascoltati e compresi, ma soprattutto hanno bisogno di una figura che li aiuti a capire aspetti e problematiche di ciò che stanno vivendo: il medico di base non può ricoprire questa figura, ma nemmeno i medici iperspecializzati che si occupano di una sola parte del corpo o di una determinata malattia, mettendo da parte tutto il resto. Il loro metodo però sta subendo battute d’arresto, tanto da portare i pazienti a cercare medici più completi. Ed ecco che entriamo in gioco noi, medici integratori che professano un altro tipo di medicina: attraverso tempi e carichi diversi, costruiscono un rapporto empatico con il paziente che permette di pensare a cure e metodi adatti a chi hanno di fronte.

Si parla spesso dei rischi di una medicina “digitalizzata”, cioè del fatto che le persone trovano in internet il loro medico virtuale e quindi si presentano dal medico in carne ed ossa avendo già una loro diagnosi, spesso fantasiosa ma granitica.

Credo che quello che lei dice sia un effetto più che una causa. Le persone cercano su internet quando non hanno risposte chiare e soddisfacenti da parte del medico. Cioè all’origine c’è l’aver vissuto sulla propria pelle una delusione. L’altro elemento è che il paziente è molto più informato e attento di prima, conosce la propria storia, la sa raccontare, conosce come reagisce il proprio organismo, quindi è protagonista fondamentale da ascoltare sia per la diagnosi sia per la terapia. Non sfruttare e non capire questa opportunità nuova impedisce di costruire un rapporto solido e fiduciario con il paziente. Le persone stanno cercando sempre di più medici di cui fidarsi al 100%, che costruiscano con loro rapporti empatici.

Quindi, secondo lei, quale può essere il punto di incontro tra pazienti sempre più digitali e medico?

Sicuramente bisogna cambiare diversi fattori, a partire dall’università: occorre formare medici nuovi che alla capacità di cura sappiano unire la capacità di rapportarsi con pazienti diversi da quelli di venti anni fa. La formazione universitaria non dedica neppure un minuto a studiare la figura del paziente, cioè della persona che il medico ha davanti a sé durante la visita. Non è semplicemente una persona con un problema di salute, è un individuo che ha delle emozioni, uno stile di vita, una conoscenza di sé e del mondo da cui la cura non può prescindere. Il nuovo medico deve saper interpretare, capire e dialogare con questa persona. Oggi invece la tecnologia – utilissima e indispensabile – è però diventata lo schermo protettivo dietro cui si trincera anche il medico, non solo il paziente: si chiedono mille esami e ci si aspetta da loro la chiave per la diagnosi e la terapia. Ma il paziente non è solo un agglomerato chimico-fisico. È un insieme complesso e solo un altro uomo che dialoghi con lui lo può capire a pieno. Bisogna ri-umanizzare la medicina se vogliamo curare per davvero. Del resto il verbo “curare” significa avere attenzione, prendersi in carico, e tutto ciò prevede un coinvolgimento attivo e interessato. Ecco: il medico deve essere coinvolto e interessato alle persone che incontra. Forse partendo da qui si risolverà la crisi di questa meravigliosa figura di professionista.

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