Strette tra difficoltà di vario genere, la medicina e la figura del medico stanno attraversando un periodo di mutamento e di nuova identità che la pandemia ha contribuito ad accelerare. In questo contesto, in cui non sono mancati accessi dibattiti sui temi della salute, anche per i pareri contraddittori degli specialisti e i cambiamenti di rotta a cui abbiamo assistito, ma anche attacchi all’omeopatia e alle medicine complementari, contrapposte alla medicina tradizionale, si è discusso sulla possibilità di ripensare a una medicina senza dogmi. Ne parliamo con Ivan Cavicchi, filosofo della medicina e sociologo profondo conoscitore del mondo medico, tanto da essere stato chiamato dall’Ordine dei Medici di Trento a studiare una riforma del codice deontologico medico.
Professore, lei ha recentemente dichiarato in un convegno che l’omeopatia, quando attaccata, non sa difendersi. Cosa intendeva esattamente?
In questi ultimi anni mi è capitato con una certa frequenza di assistere a ripetuti attacchi denigratori all’omeopatia e in generale alle cosiddette medicine complementari. A mio parere, il mondo dell’omeopatia ha risposto in modo debole, accettando un piano di discussione metodologicamente sbagliato. L’accusa il più delle volte è che non ci sono evidenze scientifiche a favore dell’omeopatia e che l’omeopatia non funziona, perché non se ne conosce il meccanismo di azione. Eppure non ha senso provare a confutare queste affermazioni se misuriamo una disciplina con i criteri di un’altra. Sarebbe come valutare la bravura di un giocatore di calcio utilizzando i parametri con cui si valuta la bravura di un pugile: è evidente l’errore metodologico. Allo stesso modo, l’omeopatia non può essere valutata con le regole della medicina tradizionale.
Ma se l’omeopatia giudicasse se stessa, non finirebbe per essere un controsenso?
La medicina – quella tradizionale, come quella complementare – non ha solo a che fare con le cellule e con i virus, ha a che fare con gli uomini. È una scienza sociale o meglio una scienza con un peso sociale, nel senso che la medicina deve concordare la sua azione con la società e il suo tempo. E quindi ogni medicina deve essere giudicata in base alla sua efficacia per un determinato individuo collocato in un determinato contesto sociale e temporale. Non può esserci una pretesa di unicità e verità da parte di una medicina rispetto alle altre. Per questo, quando la medicina tradizionale pretende di giudicare le medicine complementari utilizzando i propri criteri teorici sconfina dalle proprie competenze e si configura non più come scienza, bensì quasi come metafisica. Ed è quello che con la medicina dell’evidenza (Evidence Based Medicine) si è in parte verificato: i vantaggi indubbi connessi alla medicina dell’evidenza, in un eccesso di esaltazione di questo sistema, rischiano di trasformarsi in svantaggi e sono in parte all’origine della crisi che la medicina stessa sta vivendo. Oggi la EBM si fonda sull’uso statistico delle evidenze cliniche e di algoritmi, cioè uso del calcolo matematico per fare diagnosi e per prescrivere dei trattamenti: alla massima disponibilità di dati e di evidenze, però, non necessariamente corrisponde una verità assoluta. La tecnologia oggi offre una grande opportunità che non può essere “fraintesa” e utilizzata male: osservare, considerare i dati, è un ottimo modo per conoscere degli “oggetti”, ma non è sufficiente quando si tratta di conoscere dei “soggetti”. E i pazienti sono dei soggetti, che interagiscono con la società, con l’ambiente, con la loro stessa psiche e le loro conoscenza e convinzioni, giuste o sbagliate che siano. Il medico omeopata queste interconnessioni le conosce bene e le indaga, dedicando al paziente un tempo lungo prima di arrivare a una terapia, perché sa che la terapia più adeguata nasce proprio da una conoscenza profonda e olistica.
Può spiegare più ampiamente questo concetto?
Per curare un malato come si deve, bisogna conoscerlo bene. Senza questa conoscenza, si rischia di non curarlo in maniera adeguata. Per fare questo, serve instaurare una relazione di conoscenza; se l’unico modo per farlo è l’osservazione, o l’osservazione di dati prodotti da una macchina, si può forse conoscere il malato come oggetto biologico. Ma resta escluso il malato come soggetto sociale. Limitarsi quindi all’osservazione, per quanto ampia e dettagliata possa essere, significa esporsi a una alta possibilità di errore. Ed è quello che, a mio avviso, la medicina sta rischiando.
Bisogna quindi ridimensionare l’uso degli strumenti e della tecnologia a fini diagnostici?
No, assolutamente. Non è questo che intendo dire. La medicina scientifica ha consentito grandi progressi, ma non può arrogarsi il diritto di essere “l’unica verità”. Se il malato, come si è detto, è un essere sociale, il medico per curarlo deve imparare a conoscerlo in tutte le sue dimensioni. Quindi non si deve procedere per esclusioni – un approccio medico contro l’altro -, bisognerebbe piuttosto essere capaci di utilizzare più approcci insieme, sapendo utilizzare quello più adeguato a curare “quel” malato, con “quella” storia, con “quelle” aspettative. Oggi, invece, si vive una dicotomia inopportuna tra medicina scientifica e medicine complementari. È una dicotomia che deve essere superata, a mio avviso, per la stessa sopravvivenza della medicina e della professionalità del medico.
Come si può procedere per un superamento di questa dicotomia?
Abbiamo bisogno di una medicina senza dogmi. In medicina la complessità è ormai talmente elevata che nessuno metodo può definirsi perfetto o anche solo sufficiente. Per questo abbiamo bisogno che la medicina sia interpretata da un medico anch’egli senza dogmi e verità, ma capace di ragionare e di scegliere. Sulla base delle evidenze, delle sue conoscenze, scientifiche, della sua esperienza. Io l’ho definito “il medico pragmatico”, che significa riscoprire la vocazione pragmatista della medicina. Dove per pragmatismo si intende un pensiero filosofico niente affatto banale e banalizzante, bensì lo studio delle connessioni fra esperienza e azione, fra credenze e conoscenza, che insiste sulla funzione del pensiero come produttore di credenze da sottoporre al vaglio dell’esperienza, della prassi, della utilità dei risultati ottenuti. Una filosofia per la medicina che bada al risultato, riabilitando questo fattore come indicatore fondamentale e irrinunciabile. E questo è un territorio sul quale l’omeopatia deve spendersi perché è qui che può dare il meglio di sé. E, tornando alla domanda da cui è iniziata questa conversazione, è il terreno sul quale l’omeopatia deve chiamare al confronto i suoi detrattori.
In questo contesto, diventa centrale la formazione dei medici?
Certamente, la formazione deve ridare al medico il ruolo di interprete, portandolo a studiare, osservare, conoscere, interpretare e scegliere per il malato e con il malato. Oggi i giovani medici, neo laureati, sono indotti a lavorare seguendo protocolli sempre più rigidi, che in qualche modo ridimensionano e mortificano la loro professionalità. Dopo anni di esperienza, quest’ultima diventa il “metodo” attraverso il quale interpretano i protocolli. È un percorso lungo, che espone a rischi e errori. Sarebbe auspicabile che già all’università si insegnasse ai futuri medici a ragionare senza dogmi, a sviluppare la “medicina pragmatica”, a utilizzare i diversi approcci tra cui l’omeopatia e le altre discipline complementari, che costituiscono chiavi di conoscenza estremamente utili. Il medico avrebbe così nella propria cassetta degli attrezzi più soluzioni, con le quali affrontare il benessere delle persone che gli si affidano.
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