In ambito sanitario, il tema della Medicina di Genere si sta sempre più affermando, anche grazie al Piano per la sua applicazione e diffusione, approvato in Italia a giugno 2019. La consapevolezza delle differenze correlate al genere, al fine di garantire la migliore cura possibile a ogni individuo, appartiene anche alla visione propria dell’omeopatia e, in particolare, al concetto di personalizzazione delle terapie. E se l’omeopatia fosse ‘precursore’ della medicina di genere? Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Stefania Piloni, ginecologa, omeopata, docente, che da sempre, nel suo studio privato come nell’ospedale in cui lavora, integra nel suo approccio terapeutico la medicina tradizionale e l’omeopatia, così come la fitoterapia del resto, in una visione di medicina integrata. È quindi la persona più adatta per raccontarci i rapporti tra queste discipline, in ottica di ‘medicina di genere’.
Dottoressa Piloni, si fa sempre più un gran parlare di medicina di genere. E con questo termine non ci si riferisce solo e non tanto alle specializzazioni mediche che riguardano le specificità sessuali differenzianti l’uomo e la donna, ci si riferisce a un approccio complessivo: in altre parole uomo e donna non sono “macchine” uguali differenti solo negli organi della riproduzione. La medicina tradizionale è da poco arrivata a questa frontiera. Esiste una omeopatia di genere?
Certamente sì. Ma dirò di più, l’omeopatia nasce per essere una medicina che cura la persona e ogni persona è una storia a sé che il medico deve “esplorare” e capire. Per questo io amo definire l’omeopatia come la medicina del racconto e le donne – alle quali come medico mi sono dedicata in modo particolare – si raccontano senza remore, senza filtri. Per questo mi piace lavorare con loro e per loro. L’omeopatia mi dà delle chance in più, che affianco alle potenzialità offerte dalla medicina convenzionale. L’omeopatia la potremmo definire anche una medicina al femminile o comunque con una forte dimensione femminile, basti pensare a come vengono descritti certi famaci: pulsatilla, un farmaco delicato, per le donne che hanno consapevolezza della fragilità; o thuya che fa pensare a una donna forte, anche aggressiva, che vive le mestruazioni come una liberazione di energia, e gli esempi potrebbero continuare ancora. Potremmo dire che l’omeopatia è, in un certo senso, una sorta di precursore della medicina di genere: è, infatti, una medicina personalizzata, che non può prescindere per definizione dal genere e ancora di più dalla storia di ciascuno, nella quale l’esperienza legata al genere risulta decisiva. Ogni giorno, con ogni persona che viene da me mi trovo a lavorare sulla sua esperienza e sulla sua vita, prima ancora che sulla sua condizione di paziente. Posso aggiungere che con le donne – che vista la mia specializzazione sono la maggioranza – è più facile scoprire le aree intime, allargare il discorso, non hanno mai paura di scoprire le eventuali fragilità. L’uomo invece è più restio a comunicare i lati meno illuminati del suo essere, tende più a limitare l’area della mia indagine, a usare un linguaggio più scientifico, più asettico.
Possiamo allora definire la medicina tradizionale come una medicina “maschile”, nel senso che nasce e si sviluppa su approcci più tipicamente maschili?
Diciamo che oggi certa medicina, quella ad esempio delle strutture ospedaliere, è una medicina che si vuole performante e in questo senso è più maschile. Quando ti viene chiesto di svolgere una visita ogni 15 minuti stiamo parlando di una medicina della performance, non certo del racconto. È una medicina delle risposte, dei protocolli, non della ricerca. Ma questa è soprattutto una medicina frustrante ed è una frustrazione che vivono tutti i medici allo stesso modo, indipendentemente che siano omeopati o meno. Proviamo a pensare all’anamnesi: viene fatta sempre, ma la differenza è se le domande sono fatte per compilare un modulo o per conoscere una storia. Nella mia cartella di anamnesi, quando ho fatto il cesareo per far nascere i miei due gemelli, era appuntato un solo elemento: appendicectomia. Eppure di quell’operazione fatta a 12 anni non ho alcun ricordo. Diversamente, tempo prima ero stata coinvolta in un incidente stradale che mi ha più cambiato la vita essendo stata convinta di non uscirne viva e avendo meditato sul perché fossi sopravvissuta. Eppure sono certa che questa esperienza abbia inciso in modo assai diverso anche sulla mia realtà psico-fisica.
La medicina tradizionale ha recentemente scoperto la “medicina narrativa”, che non mi pare molto lontana da quella che lei ha chiamato “medicina del racconto”. Pensando a quando detto finora, non le sembra che si stia osservando una certa, progressiva, convergenza tra l’approccio dell’omeopatia e quello della medicina tradizionale?
Agli esempi da lei fatti aggiungerei quello più eclatante: dalla medicina delle macromolecole siamo arrivati alla medicina delle micro molecole e, addirittura, a quella delle nano molecole. È una frontiera nuova, estremamente affascinante e gravida di prospettive per il futuro. Così importante che l’Istituto Mario Negri, quello fondato dal Professor Garattini e ora guidato dal Prof. Remuzzi ha aperto un dipartimento apposta per studiare questa nuova frontiera. Bene, le nano molecole sono strutture così infinitamente piccole da andare al di là di quanto fissato dal numero di Avogadro! Il valore rivoluzionario di tutto ciò risulta più chiaro se ricordiamo che il famoso numero di Avogadro è la prova più solida e più ripetuta da chi afferma l’insensatezza e l’ascientificità dell’omeopatia: sotto 1 alla meno 19 non c’è sostanza. Ora si scopre, invece, che Avogadro si sbagliava: ci sono molecole molto più piccole. Ora i ricercatori cercano la chiave per aprire le nano molecole, cioè occorrono molecole altrettanto infinitesime per “entrare”, intervenire e curare. Non le ricorda qualcosa di molto simile alle diluizioni? Ecco, forse sarà proprio la medicina tradizionale a scoprire il meccanismo d’azione dell’omeopatia.
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